Rapina in villa, assolto dopo 5 anni

RISCHIAVA SEI ANNI DI RECLUSIONE

Rapina in villa, dopo 4 mesi di carcere e 4 anni sotto processo viene assolto

di Lamberto Abbati     mer 29 giu 2022 RiminiNews

La notte del 31 maggio 2017 un banda di rapinatori, quattro uomini incappucciati e armati di trapano e cacciavite, fece irruzione all’interno di una villa a Santa Giustina e minacciò un’intera famiglia, composta da moglie, marito e due figli di 20 anni (un maschio e una femmina). I membri della famiglia furono svegliati e trascinati all’interno della stessa camera. I banditi nel frattempo misero a soqquadro la casa racimolando un bottino di 6-700 euro in contanti. La figlia, che aveva accennato una reazione istintiva, fu malmenata e colpita alla testa. Poi l’avvertimento di non dare l’allarme alle forze dell’ordine fino all’alba, il successivo furto dei cellulari e infine la fuga con il suv del padrone di casa. Ad allertare la polizia fu la nonna, che abitava al piano sottostante, richiamata dalle grida dei familiari.

Le indagini furono affidate alla Squadra Mobile di Rimini, che poco tempo dopo arrestò uno dei presunti componenti della banda attraverso il riconoscimento fotografico su precisa indicazione delle vittime. L’uomo, fermato per rapina pluriaggravata in concorso e lesioni, era un partenopeo di 33 anni, residente a Rimini, con alle spalle piccoli precedenti. Dopo quattro mesi di carcere e quattro anni di processo, il presunto rapinatore, che oggi lavora come facchino, è stato assolto dal tribunale di Rimini perché il fatto non sussiste.

Il suo difensore, l’avvocato Cristian Brighi, è riuscito a smontare le accuse a suo carico, evidenziando una serie di incongruenze e contraddizioni. La prima tra tutte riguardante l’altezza dell’uomo, che secondo le vittime era di circa un metro e ottanta centimetri, mentre l’imputato non supera il metro e sessanta. La seconda si riferiva alla nazionalità: stando al racconto di padre e figli, i rapinatori parlavano albanese, lingua sconosciuta all’oggi 38enne, che si esprime spesso e volentieri nemmeno in italiano ma in dialetto napoletano. Infine le vittime si sarebbero contraddette circa gli indumenti indossati dalla banda: i componenti agirono tutti e quattro con il volto coperto da un passamontagna – dichiararono in un primo momento – salvo poi correggere il tiro e affermare che in realtà l’imputato era l’unico che indossava un cappellino con la visiera calata sul volto.

Pesante la richiesta del pubblico ministero Luigi Sgambati, che aveva chiesto una condanna a 6 anni di reclusione. Questa mattina, invece, per l’imputato è arrivata l’assoluzione con formula piena.

 

Corte Costituzionale 183/2021 – art. 572 cp aggravato, reato ostativo e interpretazione costituzionalmente orientata

Sentenza 183/2021
Giudizio GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente CORAGGIO – Redattore PETITTI
Camera di Consiglio del 07/07/2021 Decisione del 07/07/2021
Deposito del 30/07/2021 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate: Art. 656, c. 9°, lett. a), del codice di procedura penale, nella parte in cui richiama il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, c. 2°, lett. b), della legge 19/07/2019, n. 69. Massime: Atti decisi: ord. 9/2021

SENTENZA N. 183
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA,
Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio
PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo
BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui richiama il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), promosso dalla Corte d’appello di Bologna nel procedimento penale a carico di F. P., con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 luglio 2021 il Giudice relatore Stefano Petitti;
deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di
procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), «prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente» all’entrata in vigore della legge medesima.
Considerate la «natura afflittiva o intrinsecamente punitiva» e la «rilevanza sostanziale» della disposizione censurata, in quanto incidente sulla «portata della pena», il rimettente sospetta che l’applicazione della stessa ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 violi gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
1.1.– La Corte d’appello di Bologna riferisce di dover provvedere sull’istanza con la quale F. P. ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori «dal 2011 al mese di maggio 2017».

Sull’assunto che questo titolo di reato sia divenuto ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo con l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019, quindi solo il 9 agosto 2019, il giudice a quo reputa che un’applicazione retroattiva della modifica normativa, seppur conforme al diritto ivente ispirato al principio tempus regit actum in materia esecutiva, oltre a rimettere la maggiore o minore severità del trattamento sanzionatorio al dato casuale del diverso tempo di attivazione dell’organo esecutivo, sia lesiva della garanzia sostanziale di irretroattività delle norme penali (viene richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna).

1.2.– In ordine alla rilevanza delle questioni, il giudice a quo osserva che «l’assenza di una disciplina transitoria ha comportato l’emissione dell’ordine di esecuzione per la carcerazione e, in caso di dichiarata incostituzionalità, il P. otterrebbe l’immediata sospensione dell’ordine di esecuzione, aprendosi per lui il termine per proporre richiesta, da libero, di misure alternative alla detenzione».
D’altro canto, «[l]’esistenza di un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva» renderebbe impraticabile un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili, sotto due convergenti profili, entrambi riferiti all’asserita erroneità della mancata sospensione dell’ordine di carcerazione, emendabile dal giudice dell’esecuzione con l’immediata declaratoria di inefficacia dell’ordine
stesso.
2.1.– In primo luogo, il titolo di reato per cui è stata emessa la condanna di F. P., cioè maltrattamenti in famiglia aggravati dalla presenza di minore, non avrebbe avuto effetto ostativo al tempo della sospensione dell’ordine di esecuzione, effetto viceversa correlato al solo delitto di maltrattamenti in danno di minore.
2.2.– Inoltre, la sospensione dell’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere disposta in base alla disciplina vigente alla data del passaggio in giudicato della condanna, cioè al 26 luglio 2019, senza che potesse venire in rilievo la modifica normativa di cui alla legge n. 69 del 2019, entrata in vigore solo il 9 agosto 2019, essendo irrilevante che l’ordine stesso sia stato emesso posteriormente, ossia in data 23 settembre 2019, giacché «eventuali ritardi nell’esecuzione non possono avere alcuna incidenza sulla
individuazione della normativa applicabile al caso concreto».
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Bologna (reg. ord. n. 9 del 2021) ha sollevato questioni di legittimità Costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in
materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), «prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente» all’entrata in vigore della legge medesima. Il rimettente prospetta la violazione degli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto l’applicazione del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva per maltrattamenti aggravati dalla presenza di minore commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 – che ha reso questo titolo di reato ostativo alla sospensione – lederebbe la garanzia costituzionale e convenzionale di irretroattività delle norme penali ad effetti sostanziali, quelle incidenti cioè sulla portata effettiva della pena.
1.1.– Il giudice a quo riferisce di dover provvedere sull’istanza con la quale F. P. ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori «dal 2011 al mese di maggio 2017».
Le questioni sarebbero rilevanti poiché l’accoglimento delle stesse consentirebbe a F. P. di ottenere la sospensione dell’ordine di carcerazione e chiedere quindi, da libero, una misura alternativa alla detenzione; effetto che il rimettente dichiara non conseguibile altrimenti, attesa la sussistenza di «un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva» da impedire ogni
interpretazione adeguatrice della norma censurata.
2.– Intervenuto in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili, poiché la mancata sospensione dell’ordine di carcerazione di F. P. sarebbe frutto di errori interpretativi e applicativi, che il giudice dell’esecuzione potrebbe emendare da sé, senza alcuna necessità di sollevare incidente di costituzionalità.
Ad avviso dell’interveniente, sarebbe stato erroneo considerare ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione il reato di maltrattamenti in presenza di minori, giacché l’effetto ostativo andrebbe correlato ai soli maltrattamenti in danno di minori; inoltre, la sospensione dell’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere disposta in base alla disciplina vigente alla data del passaggio in giudicato della condanna, cioè al 26 luglio 2019, senza applicare la modifica normativa di cui alla legge n. 69 del 2019, entrata in vigore solo il 9 agosto 2019, non avendo alcuna rilevanza che l’ordine stesso sia stato emesso posteriormente, ossia in data 23 settembre 2019.
3.– Tali eccezioni di inammissibilità non sono fondate.
Il giudice a quo ha ritenuto che, malgrado il carattere ostativo del titolo di reato dei maltrattamenti familiari in presenza di minori sia sopravvenuto al fatto-reato commesso da F. P., e persino alla formazione del giudicato nei confronti dello stesso, tuttavia l’ordine di esecuzione della condanna non avrebbe potuto essere sospeso in ragione del principio tempus regit actum, la cui operatività in materia esecutiva era imposta dal diritto vivente.

3.1.– Questi argomenti sono tutt’altro che incoerenti rispetto al quadro interpretativo consolidato al momento dell’ordinanza di rimessione, effettivamente dominato dal principio tempus regit actum in materia esecutiva, fermo che l’actus di riferimento temporale avrebbe dovuto individuarsi, per l’appunto, nell’ordine di carcerazione della cui sospensione trattasi, elemento essenziale della fattispecie complessa destinata a
culminare nell’eventuale concessione delle misure alternative (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212).
Tanto basta ad escludere l’eccepita inammissibilità delle questioni in scrutinio, atteso che il sindacato di questa Corte sul giudizio di rilevanza della questione incidentale ha carattere «esterno», si arresta cioè alla soglia della «non implausibilità» della motivazione dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 59, n. 32, n. 22 e n. 15 del 2021, n. 267 e n. 32 del 2020; ordinanze n. 117 del 2017 e n. 47 del 2016).
4.– Nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di cui appresso.
5.– Con la sentenza n. 32 del 2020, questa Corte, ritenendo necessaria «una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena», ha affermato che la regola di diritto vivente secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, soffre «un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato».
Ciò la sentenza medesima ha affermato anche per il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., non essendo decisiva in senso contrario la collocazione della disposizione nel codice di rito, atteso che quel divieto «produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto».
Enunciata a proposito dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), la medesima ratio non può che valere in ogni ipotesi nella quale il legislatore estenda il novero dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva senza una disciplina transitoria mirata ad escludere dall’inasprimento normativo i condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore.
5.1.– Al cospetto di un diritto vivente univocamente orientato all’indiscriminata applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva, questa Corte, nella sopra citata sentenza, ha ritenuto di non poter adottare una pronuncia interpretativa di rigetto, e ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del
2019, «in quanto interpretato» nel senso imposto da quel medesimo diritto vivente.
Modificando il quadro interpretativo del regime intertemporale delle novelle incidenti sulla disciplina dell’esecuzione della pena, tale declaratoria di illegittimità costituzionale ha restituito ai giudici comuni la possibilità – e quindi il dovere – di interpretare in senso costituzionalmente adeguato ogni sopravvenienza normativa che muti quella disciplina in peius.
5.2.– Per dette ragioni, con la sentenza n. 193 del 2020, questa Corte, chiamata a pronunciarsi su questioni analoghe alle odierne – sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nei riguardi dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43, nella parte in cui, stabilendo l’esclusione della sospensione dell’ordine di esecuzione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, «non prevede una norma transitoria al fine di evitare l’applicazione retroattiva del divieto» –, ha dichiarato le questioni stesse non fondate «nei sensi di cui in motivazione». Infatti, sulla premessa che tale norma, sancendo il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nulla dispone circa i fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, la sentenza n. 193 del 2020 ha osservato che «nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020».

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015, come convertito, sono state dichiarate non fondate, quindi, «potendo e dovendo la disposizione censurata essere interpretata in modo conforme a Costituzione», cioè nel senso che essa potrà trovare applicazione – con riferimento al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a),
cod. proc. pen. – ai soli fatti di reato commessi successivamente alla sua entrata in vigore.
6.– A conclusioni analoghe deve pervenirsi per le questioni ora in scrutinio, una volta constatato che il reato di maltrattamenti familiari in presenza di minori è entrato a far parte del novero dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo per effetto della modifica introdotta dalla legge n. 69 del 2019, che non può peggiorare il regime esecutivo nei confronti di un condannato il quale – come F. P. – abbia commesso il reato medesimo prima dell’entrata in vigore di quella legge.
6.1.– La menzione dell’art. 572, secondo comma, cod. pen. nell’elenco dei titoli di reato per i quali l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva è stata introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, nella legge 9
agosto 2013, n. 94. A quel tempo, l’art. 572, secondo comma, cod. pen., a sua volta introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera d), della legge 1° ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007,
nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), prevedeva un’aggravante ad effetto comune del reato di maltrattamenti, se commesso «in danno di persona minore degli anni quattordici».
6.2.– Su tale quadro normativo è intervenuto il decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge 15 ottobre 2013, n. 119.
L’art. 1, comma 1, del testo originario di tale decreto sostituiva il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. riferendo l’aggravante – sempre ad effetto comune – al fatto commesso «in danno o in presenza di minore
degli anni diciotto», quindi con un ampliamento concernente non soltanto l’età del minore, giacché venivano inclusi anche gli ultraquattordicenni, ma anche la condotta del maltrattante, estesa a comprendere i maltrattamenti (non in danno, ma) in presenza del minore, tipo di lesione indiretta, basata sulla percezione della violenza in ambito domestico, anche nota come “violenza assistita”.
In sede di conversione, tuttavia, l’art. 1 del d.l. n. 93 del 2013 è stato modificato nel senso che, tramite il comma 1-bis, è stato abrogato il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. e, mediante il comma 1, il relativo contenuto è stato trasferito nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., prevedendo, tra le circostanze aggravanti comuni, l’«avere […] nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza
o in danno di un minore di anni diciotto […]».
6.3.– Da ultimo, l’art. 9, comma 1, della legge n. 69 del 2019 ha espunto il riferimento all’art. 572 cod. pen. dall’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen.
L’art. 9, comma 2, lettera b), della legge medesima ha tuttavia inserito nell’art. 572 cod. pen. un nuovo secondo comma, che ha recuperato l’aggravante, questa volta configurandola alla stregua di una circostanza
ad effetto speciale, giacché vi si prevede che «[l]a pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore […]».
6.4.– Questo excursus evidenzia che, anteriormente alla modifica introdotta dalla legge n. 69 del 2019, l’art. 572, secondo comma, cod. pen. non ha mai contemplato la circostanza della presenza del minore quale aggravante del reato di maltrattamenti.
Esso è stato formalmente veicolo dell’aggravante della «presenza di minore degli anni diciotto» nell’arco temporale che va dall’entrata in vigore del d.l. n. 93 del 2013 (17 agosto 2013) sino all’entrata in vigore della legge di conversione (16 ottobre 2013), e tuttavia l’effetto caducatorio spiegato da quest’ultima – che, come si è visto, ha abrogato quel secondo comma tramite un emendamento modificativo del testo originario del decreto – impedisce che ciò possa avere un qualche rilievo (meno che mai in malam partem), giacché il decreto-legge convertito in legge con emendamenti implicanti mancata conversione in parte qua perde efficacia sin dall’inizio ex art. 77, terzo comma, Cost. (sentenze n. 367 del 2010 e n. 51 del 1985).

6.5.– La giurisprudenza di legittimità ha potuto quindi constatare che tra l’originaria forma aggravata ex art. 572, secondo comma, cod. pen. e quella inserita nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen. vi è continuità normativa soltanto per le condotte tenute in danno dei minori di anni quattordici, unico terreno comune ad entrambe, mentre non rientrano nell’originaria previsione di aggravamento, e non
possono quindi ritenersi richiamate in forma “mobile” dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., le ulteriori ipotesi aggravate introdotte nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., ipotesi nuove, ispirate da maggior rigore punitivo, quindi soggette ai principi di tassatività e irretroattività (Corte di
cassazione, sezione prima penale, sentenza 21 marzo 2019, n. 12653).
6.6.– Insussistente in rapporto all’aggravante ad effetto comune ex art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., l’effetto ostativo della “violenza assistita” è da intendersi quindi introdotto ex novo con l’aggravante ad effetto speciale di cui al secondo comma dell’art. 572 cod. pen., come inserito dalla legge n. 69 del 2019.
7.– In definitiva, le questioni vanno dichiarate non fondate, poiché, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, pur in conformità al diritto vivente al tempo dell’ordinanza di rimessione, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. può e deve essere oggi interpretato – in linea con la sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 32 del 2020 – nel senso che il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti del condannato per il delitto di maltrattamenti aggravato dalla presenza di minori non si applica alla condanna per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2021.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA

Rimini, muore per un aneurisma: medico condannato

 

La donna, 64 anni, si era presentata in pronto soccorso con un fortissimo mal di testa, venendo dimessa: un mese dopo la tragedia

                                                       IL RESTO DEL CARLINO 11 SETTEMBRE 2021

Nel novembre del 2014 si era presentata in pronto soccorso, all’ospedale Infermi di Rimini, con un fortissimo mal di testa.

Un dolore lancinante, accompagnato da rumori all’interno dell’orecchio. Quella cefalea in realtà non era altro che un aneurisma celebrale, non diagnosticato dai sanitari che l’avevano presa in cura.

Un mese dopo la donna, Maria Faetanini, era stata colpita da un’emorragia. sottoposta a un disperato intervento, non si era più ripresa, morendo l’11 aprile del 2015. Nei giorni scorsi il Giudice monocratico del Tribunale di Rimini ha condannato a otto mesi (pena sospesa) il neurologo dell’ospedale Infermi, che l’aveva visitata in occasione del suo primo accesso in pronto soccorso.

I familiari della defunta, assistiti dall’Avv. Cristian Brighi, sono sempre stati convinti che la tragedia potesse essere evitata. Per questo motivo, subito dopo la scomparsa della 64enne, avevano deciso di fare causa. L’aneurisma poteva essere diagnosticato con un’analisi di secondo livello: questa la tesi sostenuta durante il processo dai parenti e dal loro legale. Tesi a cui la difesa si era opposta sostenendo invece che nulla, nemmeno un’analisi più approfondita, avrebbe potuto impedire la morte. Ora il procedimento proseguirà in sede civile con la richiesta del risarcimento avanzata dai familiari. Non è escluso che il professionista, difeso dall’Avv. Leonardo Bernardini, presenti ricorso.

Un mal di testa lancinante

Siamo a fine novembre 2014 quando la donna si presenta al pronto soccorso. Da qualche giorno è affetta da un mal di testa che non le dà tregua: in più avverte anche degli strani rumori all’orecchio. Quando viene visitata la signora fa presente al personale tutti i suoi problemi: viene visitata anche dal neurologo, che la sottopone a una Tac, senza contrasto però. La donna e i familiari vengono rincuorati: “E’ solo un mal di testa”, si sentono rispondere. La signora viene rimandata a casa, ma il mal di testa, nonostante gli antidolorifici prescritti non passa. Passa un mese e il 27 dicembre, la signora si ripresenta al pronto soccorso dell’ospedale Infermi. La cefalea non l’abbandona. Anche in questa occasione si trova difronte lo stesso neurologo che l’ha visitata un mese prima. stavolta non la sottopone a una Tac immediata, ma gliela prescrive per due giorni dopo, ossia per il lunedì successivo. La donna torna a casa e la domenica arriva il dramma. viene colpita da un’aneurisma celebrale che provoca un’emorragia. La signora si accascia tra le braccia del figlio.

L.M.

Rimini. Viene curato per una gastrite ma è un infarto. Condannata Ausl

Rimini. Viene curato per una gastrite ma è un infarto. Condannata Ausl

Nel febbraio del 2015 un riminese di 75 anni entra in ospedale per un forte mal di pancia. Dopo poche ore, nonostante l’impegno dei medici, muore su un lettino del pronto soccorso. La diagnosi finali, ma purtroppo tardiva,  è chiara: si tratta di un infarto. I famigliari avevano subito sporto denuncia contro l’Ausl ed i medici tramite l’avvocato Cristian Brighi.

Secondo la ricostruzione l’uomo era giunto in ospedale con forti dolori allo stomaco con attacchi di vomito. Aveva mangiato un piatto di spaghetti alla carbonara ed un’arancia. Vengono fatte numerose analisi per capire le cause dei dolori. Era stato coinvolto anche il reparto di infettivologia per valutare una possibile infezione. Era stato sottoposto anche ad indagini cardiologiche ma non avevano dato nessun esito particolare. Dopo alcune ore il 75enne muore. La famiglia dopo la denuncia in Procura ha aperto anche un procedimento giudiziario, in sede civile, per avere un risarcimento dei danni. La famiglia aveva chiesto 800mila euro.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado che condanna l’Ausl ad un risarcimento di 200mila euro. Secondo il perito, incaricato dal tribunale, se fosse stata individuata la causa del malore l’uomo avrebbe avuto qualche possibilità di salvarsi.

Rimessa alla Corte Costituzionale la legge 69/2019 “codice rosso”

La Corte di Appello di Bologna – sez I, con ordinanza de 26.11.2019 depositata in Cancelleria il 16.12.2019, ha sollevato la questione di costituzionalità

in riferimento agli art.li 3,13, 25 co. 2, 117 Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (…) dell’art. 656 co. 9 lett. a) c.p.p. nella parte in cui, richiamando l’art. 572 comma 2 c.p., come riformato dall’art. 9 Legge 69/2019, prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della Legge 69/2019. Dispone la sospensione del giudizio e l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento”

Di seguito l’incidente di esecuzione depositato:

CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA

In funzione di Giudice dell’esecuzione

Incidente di esecuzione ai sensi dell’art. 666 cpp

Il sottoscritto Avv. Cristian Brighi del foro di Rimini, difensore di fiducia del sig. XXXXXXX, nato in XXXX il 0X.0X.XXXX ed ivi residente alla via XXXXXX n. XXX, elettivamente domiciliato presso lo studio del suddetto difensore in Rimini alla via Flaminia n. 187/L

Premesso che

- nei confronti del sig. XXXXXX è in esecuzione la sentenza n. 2405/19 Reg. Gen. n. 6497/18 – RGNR n. 2521/17 emessa in data 11.04.2019 dalla Corte d’Appello di Bologna sez. I in riforma delle Sentenza n. XXXX/18 del 31.05.2018 Tribunale Ordinario Rimini, divenuta definitiva in data 26.07.2019 (all.1);

- in data 27.09.2019 è stato notificato al sig. XXXXXX l’ordine di carcerazione n. SIEP 556/19, relativo alle pena da espiare pari ad anni 1 mesi 1 giorni 15 già detratti i periodi di presofferto (all. 2);

- pertanto, in pari data, è stato scortato presso la locale Casa Circondariale di Rimini, ove attualmente si trova ristretto, senza neppure la previa notifica al sottoscritto difensore, il quale è stato reso edotto telefonicamente dal XXX mentre veniva eseguito l’ordine di carcerazione.

- il sig. XXXXX è stato condannato per un reato che risulta essere ostativo alla contestuale sospensione dell’ordine di carcerazione soltanto in seguito alla Legge 19 Luglio 2019 n. 69. Infatti si legge nell’ordine di carcerazione: il presente ordine d’esecuzione viene emesso in ottemperanza al disposto dell’art. 656 comma 9 lett. a) cpp, riguardando reati commessi in violazione del comma 2 dell’art. 572 cp come introdotto dall’art. 9 Legge 19.07.2019 n. 69, facente riferimento ai fatti commessi in presenza di persone minorenni; norma applicabile al rapporto esecutivo in esame in ragione del principio tempus regit actum regolante la materia esecutiva.

CONSIDERATO CHE

La legge 19 luglio 2019 n. 69 (con entrata in vigore il 09.08.2019) ha introdotto la fattispecie aggravata di cui all’art. 572 comma 2 cp, che non consente la sospensione dell’ordine di carcerazione, ai sensi dell’art. 656 comma 9 lett. a).

Il sig. XXXX è stato condannato, tra l’altro, per gli artt. 61 n. 11 quinquies e 572 c.p. con sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bologna, a seguito di concordato, in data 11.04.2019 divenuta irrevocabile il 26.07.2019.

L’istante, prima della riforma summenzionata, avrebbe verosimilmente beneficiato automaticamente della sospensione dell’ordine di carcerazione.

Il comma 2 dell’art. 572 c.p. è certamente norma sostanziale, ed essendo una modifica in peius per il condannato, poiché comporta il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione, si ritiene non possa trovare applicazione al caso di specie ai sensi dell’art. 2 c.p. in quanto entrata in vigore successivamente alla commissione dei fatti nonché al passaggio in giudicato della sentenza.

Anche volendo seguire l’iter argomentativo esposto nell’ordine di carcerazione (il presente ordine d’esecuzione viene emesso in ottemperanza al disposto dell’art. 656 comma 9 lett. a) cpp, riguardando reati commessi in violazione del comma 2 dell’art. 572 cp come introdotto dall’art. 9 Legge 19.07.2019 n. 69… norma applicabile al rapporto esecutivo in esame in ragione del principio tempus regit actum regolante la materia esecutiva) non può sottacersi il disappunto ed il grave vulnus  arrecato ai principi costituzionalmente garantiti.

Si ritiene non condivisibile l’assunto secondo il quale al rapporto esecutivo si applichi il principio tempus regit actum stante le concrete implicazioni sostanziali che dette norme hanno sulla natura afflittiva della pena che comportano un grave pregiudizio sul condannato. Stante, altresì, l’imprevedibilità delle conseguenze delle proprie azioni delittuose che va certamente a ledere il principio di certezza della pena nonché del diritto di difesa.

Non è accettabile cambiare le “regole del gioco” in itinere.

Tutt’al più in applicazione del principio tempus regit actum la corretta norma da applicare era la previgente avuto riguardo al passaggio ingiudicato della sentenza avvenuto il 27 luglio 2019 (momento nel quale si cristallizza concretamente la pretesa punitiva dello Stato nei confronti del condannato). A tale data la modifica  non era entrata in vigore, non esisteva.

Situazione sovrapponibile al caso che ci occupa, si è verificata con la Legge 16.01.2019 n. 3 (definita “spazzacorrotti”) che è intervenuta sul testo dell’art. 4 bis O.P., introducendo nel novero dei reati che impediscono la concessione delle misure alternative alla detenzione anche le fattispecie delittuose contro la P.A. (tra cui l’art. 314 comma 1).

Tale modifica ha comportato che, in relazione alle sentenze definitive di condanna per uno di tali reati, il Pubblico Ministero non debba più disporre la sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, posto che l’art. 656 comma 9 cpp prevede per i reati ex art. 4 bis O.P. l’impossibilità di sospensione, come disciplinato dal comma 5.

Le conseguenze e l’ambito applicativo della Legge “spazzacorrotti” è stato affrontato da diversi Giudici dell’esecuzione poiché tale modifica ha comportato per il condannato gravose conseguenze, cambiando le condizioni  richieste per poter accedere alle misure alternative e così derogando al principio generale della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena.

Vien da se che la domanda da porsi sia se possa trovare applicazione la nuova formulazione dell’art. 656 comma 9 cpp, in combinato disposto con l’art. 4 bis O.P. o con il nuovo art. 572 comma 2 c.p. per ciò che riguarda la presente esecuzione, per tutte le esecuzioni in corso al momento della sua entrata in vigore o se sia individuabile un limite temporale dal quale la norma di nuova introduzione possa produrre effetti.

Il GIP del Tribunale di Como (provvedimento del 08.03.2019), ha avuto modo di affrontare la delicata questione, ove in assenza di disciplina transitoria della Legge “spazzacorrotti”, ha ritenuto non applicare la nuova disposizione nei confronti di persona condannata per il reato ex art. 314 cp per fatti antecedenti alla sua entrata in vigore, dichiarando la temporanea inefficacia  dell’ordine di carcerazione per la durata di trenta giorni.

In assenza di una chiara scelta del legislatore, è demandata al giudice la decisione di valutare la natura sostanziale o processuale della norma di nuova introduzione e verificare se in ossequio ai principi cardine del nostro ordinamento giuridico (art. 25 costituzione, art. 2 c.p.) nonché all’art. 7 CEDU debba essere dichiarata l’irretroattività della norma penale più sfavorevole  per i condannati che abbiano commesso il fatto in epoca antecedente alla entrata in vigore della modifica peggiorativa.

Si è consci che vi sia orientamento giurisprudenziale che ritiene la natura processuale delle norme concernenti l’esecuzione della pena, in quanto non attengono né alla cognizione del reato, né all’irrogazione della pena ma alle modalità esecutive di espiazione della stessa. Anche per ciò che riguarda l’art. 656 cpp la Cassazione si è espressa negli stessi termini: trattasi di norma processuale sottoposta al principio tempus regit actum che impone di applicare le leggi vigenti al momento della loro applicazione.

Tali orientamenti non possono essere condivisi in radice.

Come ben argomentato dal GIP di Como, tale soluzione interpretativa è ancorata ad un approccio formalistico senza affrontare in concreto la questione degli effetti sostanziali prodotti dalla applicazione della norma e pertanto lo stesso ha ritenuto di non poter aderire a questo orientamento.

Le norme di riferimento da analizzare sono gli art. 25 cost., art. 2 c.p. nonché l’art. 7 CEDU la cui ratio è quella di tutelare i cittadini rispetto ai possibili abusi del potere legislativo e di non consentire che si possano subire conseguenze penali afflittive in virtù di leggi entrate in vigore successivamente alla commissione del reato.

Osserva il giudicante che non può non riconoscersi oggi che quelle che, con una “truffa delle etichette”, vengono considerate norme meramente processuali perché attinenti alle modalità di esecuzione della pena siano in realtà norme che incidono sostanzialmente sulla natura afflittiva della pena: una modifica legislativa peggiorativa di tali norme, può determinare gravi pregiudizi per il condannato ed aggredire in modo significativo il bene giuridico della libertà personale.

La stessa CEDU in una nota sentenza, ha sottolineato che è necessario andare al di là delle apparenze per valutare se una data misura costituisca pena, verificando innanzi tutto se essa sia stata imposta a seguito di condanna per un reato, per poi attribuire rilievo ad altri elementi  come la natura e lo scopo della misura in questione, la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione (sentenza 09.02.2005, causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito).

Questa impostazione sostanzialistica è stata abbracciata dalla stessa Corte Costituzionale in merito alla possibile applicazione retroattiva di nuove forme di confisca obbligatoria introdotte in conseguenza della commissione di particolari reati.

In questa sede la Corte, superando il mero riferimento nominalistico e formalistico delle misure di sicurezza, che in quanto tali avrebbero dovuto sottostare al principio tempus regit actum, ha ritenuto che le nuove misure avessero contenuto afflittivo o comunque intrinsecamente punitivo, concludendo per la inapplicabilità retroattiva nei confronti di coloro che avevano commesso tali reati prima della entrata in vigore (Corte. Cost. n. 196/2010 e Corte Cost. n. 223/2018).

E’ pacifico che il bene primario della libertà personale può in concreto essere aggredito tanto dalla legge penale c.d. sostanziale quanto dalla legge processuale quando questa, al di la del nomen iuris è in grado di comportare conseguenze afflittive.

Le conseguenze dell’applicazione della modifica normativa peggiorativa per colui  che ha commesso il fatto  prima della sua entrata in vigore, si riverberano in fatto non semplicemente sulla modalità di esecuzione della pena ma sulla stessa natura della sanzione che nella sua fase iniziale impone la detenzione anche se il soggetto risulterà meritevole di una misura alternativa, con possibilità di accesso alla misura solo in un secondo momento.

Inutile dire che il XXXXXXXX, totalmente reinserito nel contesto socioeconomico del proprio luogo di residenza, perderà il lavoro e dovrà nuovamente principiare un assurdo percorso di reinserimento sociale, tutto questo pare in antitesi con il principio rieducativo al quale dovrebbe anelare la pena comminata per conosciuto dettato costituzionale.

La disposizione ex art. 656 comma 9 lett. a) è norma fondamentale  poiché la possibilità di sospendere l’ordine di esecuzione scongiura l’effetto desocializzante e criminogeno correlato al passaggio diretto in carcere del reo nei casi in cui lo stesso avrebbe avuto diritto alla misura alternativa.

La disposizione in esame non può essere aprioristicamente etichettata come norma processuale ed infatti le eccezioni alla regola previste dal 656 comma 9 lett. a) non incidono semplicemente sulle modalità esecutive della pena, ma in concreto impongono il regime detentivo in attesa della decisione del magistrato di sorveglianza sul possibile accesso alla misura alternativa.

Pertanto applicare retroattivamente una norma che trasfigura il contenuto della sanzione e farla valere anche per chi è stato condannato per un fatto commesso antecedentemente, significa violare l’art. 117 cost. integrato dall’art. 7 CEDU  nonché gli art. 25 comma 2 cost. e 2 cp, norme il cui raggio di operatività non può non estendersi a tutte le disposizioni che, a prescindere dalle etichette come nel caso di specie, abbiano un contenuto afflittivo o intrinsecamente punitivo.

Significa, altresì, sanzionare in maniera pesantemente pregiudizievole un soggetto che all’epoca della commissione del fatto, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva il divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione.

Codesta difesa, condividendo appieno il ragionamento del GIP di Como corredato da concrete e lineari motivazioni, non può che farlo suo ritenendo ulteriormente sovrapponibile al caso concreto quivi esposto.

Altra pronuncia interessante si rinviene nella ordinanza della Corte d’Appello di Lecce (n. 115 del 04.09.2019) sempre con riferimento alla modifica introdotta dalla legge 3/2019 nei confronti di un condannato per il delitto di peculato commesso antecedentemente alla modifica.

La Corte ha ritenuto non poter accogliere le richieste del difensore, avuto riguardo al diritto vivente per il quale le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive attengono alle modalità esecutive delle stesse e pertanto soggiacciono al principio tempus regit actum.

Ha, tuttavia, sottolineato che è indubbio che nella più recente giurisprudenza della CEDU, ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di pena abbiano assunto una connotazione anticonformista e sostanzialistica, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall’ordinamento, la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta (sentenza CEDU caso De Rio Prada contro Spagna del 21.10.2013).

Il Giudice dell’esecuzione ha ritenuto altresì suggestivo e meritevole di valutazione la prospettazione difensiva per la quale l’avere il legislatore mutato la normativa in itinere senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l’art 7 CEDU e l’art. 117, cost. in quanto per il condannato si traduce in un passaggio a sorpresa, e dunque non prevedibile, da una sanzione senza assaggio di pena ad una sanzione con necessaria incarcerazione.

La Corte ha, pertanto, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 6 comma 1 lettera b) Legge 3/2019 nella parte in cui ha inserito  i reati contro la pubblica amministrazione ed in particolare l’art., 314 cp tra quelli ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4 bis O.P. per il rilevato contrasto con gli artt. 3, 25 comma e 177 cost. in riferimento all’art. 7 CEDU, senza provvedere un regime transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore, sospendendo il processo con l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Il giudicante, quanto meno, ha ritenuto la questione meritevole di approfondimento e di tutela, ravvisando profili di incostituzionalità.

Si ritiene che le conclusioni alle quali sia approdata la Corte d’Appello di Lecce possano essere trasfuse al caso concreto in quanto, ad oggi, manca una norma transitoria di coordinamento tra la novella fattispecie ex art. 572 c.p. e l’art. 656 comma 9 lett. a).

L’assenza di una norma transitoria non permette di fare decorrere l’efficacia delle più restrittive disposizioni introdotte successivamente alla commissione del fatto.

Modifiche che comportano una sostanziale modificazione dello stato di libertà personale, non possono considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo costituzionale.

Così, per quanto concerne il principio costituzionalmente garantito di affidamento, vi sarebbe una violazione dello stesso quando le concrete ricadute negative previste da una disposizione normativa conseguano non alla condotta dell’imputato/condannato bensì da fattori esterni, aleatori, del tutto sottratti alla sua sfera di controllo (Cass. Sez. Un. 12.07.2007 n. 27614), escludendo, per tali motivi, la modifica retroattiva in peius di misure cautelari  (Cass. Sez. Un. 14.07.2011 n. 27919) evidenziando che in ordine alle norme processuali, occorre adottare un approccio sostanzialistico, valutandone in concreto l’effettivo impatto sui diritti fondamentali (in primis sulla libertà personale)

In conclusione, un soggetto nel momento in cui commette un fatto-reato deve avere la certezza della pena che potrà essere comminata e poter prevedere ciò che potrà succedere all’esito del processo, ivi compresa la modalità di esecuzione della pena anche al mero fine di poter porre in essere la miglior difesa possibile.

Stravolgere le carte in tavola in itinere rende dubbiosa e non conoscibile la pretesa punitiva dello stato e la sua concreta applicazione.

Nel caso di specie, il sig. XXXX se fosse stato a conoscenza della novella normativa e quindi se la stessa fosse stata in vigore all’epoca dei fatti o comunque conoscibile in tempi utili avrebbe potuto valutare un concreto rimedio alla sua situazione, anche in ambito lavorativo, financo rinunciando al concordato in appello ovvero proporre ricorso per Cassazione nonché, nella consapevolezza della notifica dell’ordine di carcerazione, presentare immediatamente l’istanza di misura alternativa alla detenzione.

Per il XXXX l’ordine di carcerazione senza sospensione è stata una vera e propria “doccia fredda” che gli ha impedito fattivamente di valutare anche eventuali strategie processuali.

Tanto premesso, il sottoscritto difensore

CHIEDE CHE

l’Ecc.ma Corte d’Appello adita Voglia, ai sensi dell’art. 666 c.p.p. disporre la sospensione dell’ordine di esecuzione, dichiarando l’inefficacia temporanea dello stesso, con pedissequa fissazione dell’udienza in camera di consiglio o, in subordine, si invita l’adita Corte di Appello a sollevare questione di illegittimità costituzionale in relazione alla mancata applicabilità dell’art. 2 c.p. al rapporto esecutivo in violazione e contrasto con i principi affermati dagli artt. 3, 25, 111, 117 cost. in riferimento all’art. 7 CEDU.

Rimini lì, 03.10.2019                                                                                                                       

Avv. Cristian Brighi

Allegati:

1) sentenza n. 2405/19 Corte d’Appello di Bologna.

2) Ordine di carcerazione n. SIEP 556/19.

 

Dimessa dall’ospedale muore, medico a processo

Dimessa dall’ospedale di Rimini, muore

“Ho mal di testa”: era un aneurisma. Medico a processo

di GRAZIA BUSCAGLIA
Dimessa due volte dal pronto soccorso di Rimini per un mal di testa: è morta per aneurisma

Rimini, 7 ottobre 2019 – Si è presentata presentata al pronto soccorso dell’ospedale di Rimini per due volte, accusando sempre gli stessi sintomi: un violento dolore alla testa con tanto di rumori all’interno dell’orecchio. Non sapeva, la donna riminese di 64 anni, che quella maledetta ‘cefalea’ l’avrebbe portata alla morte. Il mal di testa altro non era che un aneurisma cerebrale, non disgnosticato dai sanitari che l’avevano presa in cura.

Ora un neurologo dell’ospedale di Rimini, Alberto Amadori, è a processo per il decesso della donna, da poco tempo in pensione. I familiari, assistiti dall’avvocato Cristian Brighi, subito dopo la scomparsa della signora, avevano fatto causa: volevano sapere se, con i dovuti accertamenti diagnostici, quella morte avrebbe potuto essere evitata. Due giorni fa, durante l’udienza del processo al medico (difeso dall’avvocato Leo Bernardini) sono state ripercorse le tappe del dramma che ha investito una famiglia riminese.

Siamo a fine novembre del 2014 quando la donna si presenta in pronto soccorso. Da qualche giorno è affetta da un mal di testa che non le dà tregua: in più avverte anche degli strani rumori all’orecchio. Quando viene visitata la signora fa presente al personale tutti i suoi problemi: viene visitata anche dal neurologo, il dottor Amadori, che la sottopone a una Tac, senza contrasto però.

La donna e i familiari vengono rincuorati: «E’ solo un mal di testa», si sentono rispondere. La signora viene rimandata a casa, ma il mal di testa, nonostante gli antidolorifici prescritti, non passa.

Passa un mese e il 27 dicembre, la signora si ripresenta al pronto soccorso dell’ospedale Infermi. La cefalea non l’abbandona. Anche in questa occasione si trova di fronte lo stesso neurologo che l’ha visitata un mese prima. Stavolta non la sottopone a una Tac immediata, ma gliela prescrive per due giorni dopo, ossia per il lunedì successivo. La donna torna a casa e la domenica arriva il dramma. Viene colpita da un aneurisma cerebrale che provoca un’emorragia. La signora si accascia fra le braccia del figlio.

Viene trasportata al Bufalini dove è sottoposta a un intervento chirurgico, ma le sue condizioni sono disperate. Viene poi trasportata per tentare una riabilitazione alla Sol et Salus, ma non si riprende mai più e muore l’11 aprile 2015. «Mia madre non si è più ripresa, riusciva a malapena ad aprire gli occhi e abbozzare un sorriso», ha ricordato tra le lacrime il figlio. Il processo è stato aggiornato al 29 ottobre.

Violazione obblighi assistenza familiare. Procedibilità alla luce dell’introduzione dell’art. 570 bis c.p. Cass. Pen sez. feriale n° 37766 del 03.08.2018

Violazione obblighi assistenza familiare. Procedibilità a querela o d’ufficio?

Anche a seguito dell’intervenuta formale abrogazione della fattispecie incriminatrice in contestazione la continuità normativa predicabile tra la nuova disposizione e quella previgente esclude qualsivoglia modifica del regime di procedibilità, accreditando l’attualità del principio secondo cui il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile è procedibile d’ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto il rinvio contenuto nella L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies all’art. 570 c.p. si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013 – dep. 31/05/2013, S., Rv. 255270).

Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 02-08-2018) 03-08-2018, n. 37766

Di seguito dal sentenza a seguito del ricorso presentato dall’Avv. Cristian Brighi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Mariastefania – Presidente -

Dott. CATENA Rossella – Consigliere -

Dott. DE SANTIS Anna Maria – rel. Consigliere -

Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere -

Dott. BASSI Alessandra – Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

M.A. n. a (OMISSIS);

avverso la sentenza resa in data 1/2/2018 dalla Corte d’Appello di Bologna;

Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;

udita nell’udienza pubblica del 2/08/2018 la relazione del Cons. Dott.ssa Anna Maria De Santis;

udita la requisitoria del Sost. Proc. Gen., Dott.ssa LORI Perla, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione;

udito il difensore dell’imputato Avv. Cristian Brighi, sostituito dall’Avv. Carmine D’Onofrio, il quale si è riportato ai motivi, chiedendone l’accoglimento.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 55333 del 7/11/2016 la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione annullava, in accoglimento del ricorso del P.m., la decisione del Tribunale di Rimini che aveva assolto con la formula del fatto non costituente reato M.A. dal reato di omessa corresponsione alla moglie divorziata R.A. dell’assegno mensile di mantenimento stabilito in suo favore dal giudice civile.

La pronunzia rescindente rilevava nella sentenza censurata una doppia violazione di legge, evidenziando – da un lato – la procedibilità d’ufficio del reato L. n. 898 del 1970, ex art. 12 sexies dall’altro, l’irrilevanza ai fini dell’integrazione della fattispecie di una situazione di bisogno o di indigenza della p.o., restando integrato l’illecito per effetto del solo inadempimento dell’obbligo contributivo disposto in sede di divorzio.

La Corte d’Appello di Bologna, giudicando in sede di rinvio, in riforma della sentenza del giudice monocratico di Rimini, dichiarava M.A. responsabile del reato ascrittogli, condannandolo alla pena di mesi due di reclusione ed Euro 200,00 di multa.

2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, Avv. Cristian Brighi, deducendo:

2.1 l’inosservanza o erronea applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies in relazione al rinvio quoad poenam riferito all’art. 570 c.p., comma 2. Secondo la difesa del ricorrente la Corte territoriale ai fini della determinazione della pena ha erroneamente fatto riferimento alla sanzione stabilita in forma congiunta al secondo comma all’art. 570 c.p., comma 2 piuttosto che al comma 1, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità nella sua massima espressione nomofilattica con sentenza del 31/1/2013 n. 23866 delle Sezioni Unite;

2.2. l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in ordine alla mancata qualificazione del reato come procedibile a querela, anche in considerazione dell’abrogazione della L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies e pedissequa vigenza dell’art. 570 bis c.p.. Secondo il ricorrente l’introduzione dell’art. 570 bis c.p. ripropone la questione della procedibilità a querela, tenuto conto dell’ampliamento della fattispecie rispetto al previgente art. 12 sexies che consente di differenziare tra l’inadempimento dell’obbligo contributivo nei confronti del coniuge separato e di quello divorziato;

2.3 l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in ordine alla ritenuta inammissibilità della richiesta dei doppi benefici di legge e la contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La difesa censura la ritenuta tardività della richiesta di concessione dei benefici di legge e la contraddittorietà del giudizio prognostico di sfavore comunque formulato nonostante l’incensuratezza del ricorrente e la definizione in via transattiva del contenzioso economico, circostanze valorizzate al fine del riconoscimento delle attenuanti generiche.

Con motivi nuovi pervenuti a mezzo posta il 31 luglio 2018 il difensore deduce ulteriormente:

2.4 la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata applicazione dell’esimente di cui all’art. 131 bis c.p., avendo la Corte distrettuale omesso di fornire adeguata ed esaustiva risposta alla prospettazione difensiva, valorizzando ai fini del diniego la durata dell’inadempimento e l’ammontare complessivo dei contributi non versati;

2.5 l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale in relazione all’ammissibilità della richiesta di concessione dei doppi benefici e dell’attenuante ex art. 62 c.p., n. 6, avendo la Corte trascurato la possibilità di accordarli d’ufficio a norma dell’art. 597 c.p.p., comma 5.
Motivi della decisione

3. L’esame del secondo motivo risulta logicamente prioritario in quanto revoca in dubbio la procedibilità d’ufficio del reato di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 12 sexies alla luce dell’avvenuta abrogazione e dell’introduzione nel sistema dell’art. 570 bis c.p. e impone un giudizio d’infondatezza della doglianza.

Va al riguardo segnalato che l’introduzione dell’art. 570 bis c.p. e la contestuale abrogazione espressa della L. n. 898 del 1970, art. 12-sexies e della L. n. 54 del 2006, art. 3 è stato operato con il D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 63 del 22 marzo 2018, in attuazione della delega prevista alla L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 85, lett. q) che ha dato corso al principio della riserva di codice mediante la trasposizione delle norme penali spurie nella sede propria, al fine di una almeno tendenziale unificazione del corpo normativo. Alla legge delega deve riconoscersi (per gli aspetti che in questa sede rilevano) carattere meramente compilativo, come reso evidente dalla relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo ove si legge che il nuovo art. 570-bis c.p. “assorbe le previsioni di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies e alla L. 8 febbraio 2006, n. 54 di cui all’art. 3…. La modifica, da un lato, non incide sul regime di procedibilità di ufficio, la cui corrispondenza a Costituzione è stata comunque ripetutamente affermata dalla Corte costituzionale (da ultimo con sentenza n. 220 del 2015), dall’altro, contempla le ipotesi (già previste mediante rinvio agli artt. 5 e 6 della stessa legge) di scioglimento, cessazione degli effetti civili, nullità del matrimonio oltre che quella dell’assegno dovuto ai figli nelle medesime evenienze”.

Pertanto, anche a seguito dell’intervenuta formale abrogazione della fattispecie incriminatrice in contestazione la continuità normativa predicabile tra la nuova disposizione e quella previgente esclude qualsivoglia modifica del regime di procedibilità, accreditando l’attualità del principio secondo cui il reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile è procedibile d’ufficio e non a querela della persona offesa, in quanto il rinvio contenuto nella L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies all’art. 570 c.p. si riferisce esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013 – dep. 31/05/2013, S., Rv. 255270).

4. Il primo motivo è fondato e merita accoglimento. Infatti, come segnalato dalla difesa, questa Corte ha chiarito che nel reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile previsto dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 12-sexies come modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 21 il generico rinvio, “quoad poenam”, all’art. 570 c.p. deve intendersi riferito alle pene alternative previste dal comma 1 di quest’ultima disposizione. (Sez. U, n. 23866 del 31/01/2013, S., Rv. 255269) con la conseguenza che la pena inflitta in maniera congiunta al ricorrente s’appalesa illegale.

5. Risulta ugualmente fondato il terzo motivo, richiamato nel secondo motivo nuovo. La Corte felsinea ha ritenuto inammissibile la richiesta di concessione dei doppi benefici di legge avanzata dal difensore in sede di discussione senza considerare, da un lato, che il processo era pervenuto in sede d’appello a seguito di annullamento con rinvio della sentenza assolutoria del primo giudice, e quindi in assenza di un atto d’impugnazione della difesa; dall’altro, che a norma dell’art. 597 c.p.p., comma 5, la sospensione e la non menzione potevano essere, comunque, applicate d’ufficio. Nè appare logicamente rigorosa e coerente con le risultanze processuali l’affermazione effettuata in via di chiusura argomentativa secondo cui la durata dell’inadempimento risulterebbe, in ogni caso, ostativa ad una prognosi favorevole in punto di futura astensione da condotte illecite, trattandosi di valutazione dissonante rispetto allo stato di incensuratezza e all’avvenuta definizione in via stragiudiziale del contenzioso economico con la p.o., richiamati a giustificazione della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Ciò in quanto l’intervenuto accordo transattivo rappresenta un punto d’equilibrio nella composizione dei contrapposti interessi delle parti e segna una discontinuità con il reato che imponeva una più accurata spiegazione della assorbente rilevanza accordata al dato temporale del pregresso inadempimento.

6. Alla stregua dei rilievi che precedono – assorbiti i residui profili censori- s’impone l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Bologna per nuova valutazione in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio ed eventuale accesso ai benefici di legge. Deve al riguardo precisarsi, a fronte delle difformi conclusioni del P.g., che il reato contestato non risulta estinto per prescrizione in considerazione della sospensione per complessivi mesi 6 e gg. 13 disposta dalla Corte d’Appello a seguito di astensione dei difensori dall’attività professionale.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e alla sospensione e non menzione della stessa, e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’Appello di Bologna. Rigetta nel resto il ricorso.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 2 agosto 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2018

Rimini, quasi cieco alla guida investì due donne: assolto ma revocata la patente

TGCOM24

27 APRILE 201912:35

Rimini, quasi cieco alla guida investì due donne: assolto ma revocata la patente

Parla una delle vittime: “Mi chiedo come sia stato possibile dare la patente ad una persona che non ci vede.

Un ragazzo di 23 anni, quasi cieco, che ha investito con l’auto e ferito in modo non grave due donne nel gennaio del 2017 a Riccione, è stato assolto in primo grado perché “il fatto non costituisce reato”. La vicenda, riportata da alcuni quotidiani locali, riguarda Marco Di Nicola, residente nel Riminese, mandato a processo dalla Procura di Rimini per aver causato l’incidente stradale, per essersi allontanato dal luogo omettendo il soccorso e per lesioni.

Il pm ne aveva chiesto la condanna a 8 mesi, in rito abbreviato. In aula davanti al gup, l’avvocato difensore Cristian Brighi ha però dimostrato, certificati medici aggiornati alla mano, che il 23enne soffre di una patologia degenerativa, la retinite pigmentosa, che ne limita la visuale periferica. L’automobilista vede solo all’8,5% e le donne investite, che sono sorelle, avevano appena finito di attraversare la strada, trovandosi quindi a lato della vettura e fuori dal suo campo visivo. Inoltre il danno conseguente alle lesioni delle investite, una delle donne aveva avuto uno prognosi di 30 giorni e l’altra aveva solo graffi superficiali, non è stato fatto valere in sede penale, per mancanza di querela nei termini. In seguito all’incidente, del quale una volta informato dell’accaduto si era dichiarato l’autore, al giovane era stata ritirata la patente è ora è stata revocata in via definitiva.

“Ho sempre avuto problemi alla vista, soffro di una patologia genetica, la retinite pigmentosa, il mio bisnonno è diventato cieco”, spiega il giovane al Resto del Carlino. ”Nel gennaio di due anni fa ho scoperto di aver avuto un incidente stradale. L’ho scoperto perché una mattina sono arrivati a casa mia i vigili urbani. Sono venuti ad informarmi che l’auto, una Kia Picanto rossa, intestata a mia madre, aveva avuto un incidente stradale a Riccione. Sono caduto dalle nuvole; l’autovettura non presentava alcun danno, niente di niente. Prima hanno interrogato mia madre e poi è toccato a me”. Marco Di Nicola ha ammesso di utilizzare l’auto rossa della madre ogni giorno per recarsi al lavoro. “Io ho subito specificato agli agenti di non essermi accorto di nulla e ho immediatamente fatto presente di aver seri problemi di vista”, ha sottolineato. “Ho il visus molto ridotto. Mi è preso un colpo quando mi è stato detto che ero indagato non solo per aver provocato l’incidente, ma soprattutto per omissione di soccorso. Era diventata una questione penale ed io mi sono terrorizzato, avevo la coscienza a posto, non sapevo di aver provocato un incidente”. E conclude: “Ho un’invalidità all’ottanta per cento e sono iscritto alle liste di collocamento delle categorie protette”.

Maria Paola Canali, una delle donne investite, allo stesso quotidiano ci tiene a raccontare la situazione in cui si trova attualmente la sorella: “Isabella si è rotta una gamba durante quell’impatto e continua a zoppicare. I medici non le hanno assicurato che tornerà come prima, potrebbe non guarire completamente”. Ma in tutto questo, le due donne non portano rancore nei confronti del giovane: “Non abbiamo nessuna intenzione di infierire su quel ragazzo”, spiega Maria Paola. “Ripeto, non vogliamo fare del male a nessuno. Ci penserà l’assicurazione a risarcire i danni. Ma quello che continuo a domandarmi è come sia stato possibile che a una persona con quella patologia, uno insomma che ci vede poco, abbiano potuto dare la patente. Era un bel rischio guidare la macchina nelle sue condizioni”.

ADS a processo: assolto dal falso ideologico in atto pubblico e riconosciuta dal Collegio la tesi difensiva in ordine al reato di peculato

Il processo si è concluso con una condanna a 2 anni di reclusione, ma l’imputato si gioverà della sospensione della pena
Attualità Rimini | 18:06 – 14 Marzo 2019
La vicenda fece molto scalpore nell’opinione pubblica. Un 62enne riminese, noto tecnico del suono nelle discoteche del riminese, era finito sotto indagine, accusato di aver intascato i soldi dei cugini disabili, approfittando del suo ruolo di amministratore di sostegno dei loro beni. Il processo si è concluso giovedì 14 marzo con una condanna a 2 anni di reclusione, ma l’imputato, difeso dall’avvocato Cristian Brighi, si gioverà della sospensione della pena. Il Sostituto Procuratore Davide Ercolani aveva chiesto condanna a 6 anni di reclusione.

LE ACCUSE. Il 62enne doveva rispondere di peculato e di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, con l’aggravante del rilevante danno economico, per aver sottratto 109.000 euro ai due cugini, giustificando i prelievi delle somme con dei rendiconti risultati falsi, secondo la pubblica accusa. Il giudice ha invece assolto il riminese da quest’ultima fattispecie di reato, perché il fatto non sussiste, disponendo la condanna per il peculato, senza aggravante, ma con le attenuanti: la somma contestata, circa 32.000 euro, è denaro che l’imputato aveva prelevato per far fronte ad alcune situazioni debitorie, ma a titolo di prestito. Un prestito che l’imputato aveva segnalato al giudice tutelare, prima del procedimento penale, e che aveva ottenuto con il benestare dei suoi assistiti. Ma questo gli è comunque costato la condanna davanti al giudice.”Una sentenza soddisfacente che ha compreso e valorizzato la reale scansione dei fatti, fin da subito narrata dal mio assistito”, ha commentato l’avvocato Brighi, che ha annunciato anche ricorso in Cassazione.

Soldi non rubati ai cugini disabili ma solo presi in prestito: si prepara all’interrogatorio il 61enne riminese

Soldi non rubati ai cugini disabili ma solo presi in prestito: si prepara all’interrogatorio il 61enne riminese

Cronaca Rimini | 06:58 – 09 Marzo 2018

E’ stato fissato per lunedì 12 marzo l’interrogatorio di garanzia nei confronti del 61enne riminese, noto tecnico del suono nelle discoteche del riminese, accusato di aver intascato i soldi dei cugini disabili. L’uomo, che ricopriva il ruolo di amministratore di sostegno, è accusato di peculato aggravato e falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici; si trova attualmente ai domiciliari e davanti al giudice Benedetta Vitolo darà la propria versione dei fatti, assistito dall’avvocato Cristian Brighi. L’uomo avrebbe prelevato dei soldi dai libretti dei due cugini, impossibilitati a provvedere ai propri bisogni e per questo assistiti dal parente come amministratore di sostegno, ma a titolo di prestito con l’intento di restituirli. Questo per far fronte ad alcune situazioni debitorie insorte, in particolar modo dopo l’investimento non fruttuoso in un Bed&Breakfast in Alta Valmarecchia. I soldi prelevati però sarebbero molto inferiori alla cifra di 107.000 euro, la maggior parte del denaro è stata infatti impiegata per il bisogno dei due parenti assistiti, in un arco di tempo di una decina di anni.